Federico Peliti
Premiato con medaglia d’oro all’Esposizione Nazionale Italiana di Torino del 1898 nella sezione Dilettanti fotografi, “per la splendida collezione di fotografie dell’India, di cui alcune rarissime, rappresentanti scene religiose, domestiche, templi, monumenti, ecc.”, Federico Peliti (Carignano, 1844-1914) era conosciuto ed era stato celebrato in vita soprattutto per l’attività professionale esercitata in India nella seconda metà dell’Ottocento. Ricordato, tra gli altri, anche in alcuni racconti di Rudyard Kipling (Il risciò fantasma) e dall’antropologo Paolo Mantegazza (India, Milano 1884), per le sue eccezionali doti di albergatore, ristoratore, chef e confettiere sublime, a Peliti ricorrevano abitualmente – per l’organizzazione di banchetti, feste e battute di caccia alla tigre nei luoghi più impervi o nelle regioni desertiche dell’interno dell’India – governatori e funzionari britannici, diplomatici, principi e signori indiani.
Dopo essersi diplomato all’Accademia Albertina di Torino (1865), dove si era formato come scultore con Vincenzo Vela, allora figura di spicco nel mondo artistico ed intellettuale italiano, e dove aveva potuto ricevere gli insegnamenti di architettura, di ornato e di plastica ornamentale che più tardi avrebbe messo in pratica nella realizzazione di raffinatissime torte “architettoniche”, destinate ad abbellire i banchetti ufficiali da lui stesso approntati (e note in alcuni casi anche da alcune fotografie), Peliti giunse a Calcutta nel 1869 per servire, in qualità di chief confectioner, il viceré inglese Lord Mayo, che lo aveva scelto in seguito ad un concorso bandito tra candidati di altissima professionalità, per la raffinata e colta tradizione piemontese nell’arte della confetteria e nel settore dell’industria dolciaria. Nel 1872, dopo l’assassinio del viceré, avviò un’attività commerciale autonoma, aprendo a Calcutta una pasticceria che fu in seguito affiancata da un rinomato ristorante,da altre coffee-house a Simla (la Regent House), a Rangoon, a Bombay, e soprattutto dal Grand Hotel di Simla, che presto divenne il fulcro della sua intraprendente e brillante carriera di confettiere e proprietario alberghiero.
Il repertorio fotografico di Federico Peliti, entrato a far parte delle collezioni dell’Istituto Nazionale per la Grafica nel 1989, grazie alla generosa donazione del nipote Filippo (e al quale è stata già dedicata nel 1993 la mostra Federico Peliti. Un fotografo piemontese in India al tempo della regina Vittoria, a cura di Marina Miraglia), nonostante non rappresenti la totalità della produzione dell’autore, permette comunque – con l’insieme dei suoi circa 400 negativi (lastre alla gelatina bromuro d’argento in vari formati) e 250 positivi (albumine), oltre ad un centinaio di fotografie di altri autori – di ricostruire con sufficiente precisione l’intero arco della sua attività fotografica oltre che dei suoi interessi di collezionista, rivolti in particolare alla fotografia orientalista.
Riallacciandosi alle coordinate preraffaellite della contemporanea cultura fotografica inglese e ispirandosi soprattutto alla monumentale opera fotografica realizzata in India negli anni immediatamente precedenti al suo arrivo dal grande fotografo professionista Samuel Bourne (1863-1869), Peliti ha lasciato un corpus d’immagini che si segnala, nella sua qualità e ricchezza di contenuti, quale importante e quasi unico contributo iconografico italiano alla conoscenza dell’India nel XIX secolo. Possiamo infatti affiancargli soltanto la testimonianza di Felice Beato, con atelier a Calcutta alla fine degli anni cinquanta e che nel 1858 si era recato a Lucknow, a Cawnpore e a Delhi per documentare i luoghi e la cruda repressione della rivolta contro la dominazione inglese (la Mutiny), prima di partire alla volta della Cina al seguito di un contingente militare inglese impegnato nella seconda guerra dell’oppio. Di qualche anno più tarda (1904-1906) è invece la documentazione del conte Luigi Primoli, del quale Peliti anticipa in un certo senso quei caratteri di istantaneità, spontaneità e lucida partecipazione, ottenuti a volte anche grazie all’uso veloce e discreto del piccolo formato della carte de visite, in grado di sorprendere e fermare gesti, usi, riti e abitudini della vita e della cultura popolare indiana, con analitica puntualità e fine sensibilità antropologica.
L’India narrata da Peliti è, da una parte, quella brulicante, policroma e caleidoscopica dei grandi centri, affollata di sadhu, venditori ambulanti, botteghe, celebrazioni pubbliche e pratiche religiose sulle rive del Gange, come quella più sommessa dell’interno agricolo, caratterizzata da più arcaiche attività rurali e artigianali, tra semplici strutture abitative di fango e bambù.
Ma è anche, dall’altra, quella raffigurata nelle straordinarie immagini memorialiste che descrivono gli svaghi e i ludici passatempi dell’ambiente coloniale inglese di Simla, cittadina ai piedi dell’Himalaya, scelta come residenza estiva del governo inglese e luogo di villeggiatura privilegiato per cittadini britannici e dignitari indiani, nonché meta obbligata per viaggiatori occidentali di passaggio in India.
Nelle immagini fotografiche di Peliti l’indagine dei vari contesti archeologici, monumentali e urbanistici si alterna ai ritratti di personalità della più alta nobiltà indiana o di figure più strettamente legate al proprio milieu e alla propria cerchia familiare.
Come sottolineano le immagini scelte per la mostra, la raffinata eleganza della vita sociale e mondana delle upper classes - nella cui rappresentazione meglio si coglie il gusto e la sensibilità preraffaellita di una cultura alta, esclusiva e privilegiata -, si scontra e si confronta con la raffigurazione del mondo popolare in immagini di straordinaria forza narrativa ed emotiva, nelle quali si manifesta invece l’originale approccio dell’autore alla società e alla cultura locale. Contemporaneamente protagonista e testimone della vita del subcontinente, Peliti ritrae il proprio mondo e quello dei nativi con un atteggiamento del tutto scevro dai condizionamenti mentali del colonialismo e dai preconcetti tipici della cultura occidentale. Pur consapevole della profonda ed incolmabile distanza tra la vita dell’élite sociale e culturale cui egli stesso appartiene e la realtà più drammatica e cruda del resto dell’India, Peliti restituisce nobiltà di tratti e spontanea eleganza anche ai gesti più quotidiani, alle attività e alle figure più umili e dimesse di quella immensa poliedrica umanità, di quella complessa e remota civiltà della quale l’Occidente, più facilmente indulgendo al luogo comune del pittoresco e al gusto stereotipato dell’esotico, non ha saputo sempre comprendere e interpretare le più profonde motivazioni ed espressioni culturali.